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Licenziamenti individuali: le regole e cosa fare

Se hai bisogno di aiuto e assistenza riguardo le procedure di licenziamento, puoi fare affidamento sulla nostra riservatezza e sull’affidabilità di CISL, frutto di molteplici anni di esperienza nel settore.

 

Cos’è il licenziamento individuale

Il licenziamento individuale è l’atto unilaterale con il quale datore di lavoro recede dal contratto di lavoro. Deve essere intimato in presenza di un'adeguata motivazione, ovvero per giustificato motivo e/o per giusta causa. Il provvedimento deve inoltre essere comunicato in forma scritta e deve contenere i motivi del licenziamento.

L’articolo 2118 del Codice Civile individua alcuni casi che fanno eccezione e che consentono ad entrambe le parti di recedere dal rapporto di lavoro senza fornire alcuna motivazione e con il solo obbligo di dare preavviso: i lavoratori domestici; i lavoratori ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro fino al conseguimento della massima anzianità contributiva utile e comunque non oltre il 65^ anno di età; i lavoratori assunti in prova, sempre che non siano decorsi sei mesi dall'assunzione; il coniuge e i parenti entro il secondo grado del datore di lavoro nell'ambito del lavoro familiare; i lavoratori con contratto a termine; i dirigenti rientrano infatti tra le ipotesi in cui si può recedere dal contratto senza motivazione.

 

Il licenziamento per giusta causa

Il licenziamento motivato da giusta causa è un provvedimento disciplinare conseguente condotte del lavoratore così gravi da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro. Vi è interruzione immediata del rapporto di lavoro. Rappresenta il licenziamento disciplinare per eccellenza e non prevede indennità di preavviso: è però obbligatorio attivare un procedimento disciplinare con preventiva comunicazione al lavoratore, al fine di consentirgli un’adeguata difesa da accuse eventualmente infondate.

Se il lavoratore ritiene ingiusto il licenziamento, può impugnarlo entro 60 giorni: il termine temporale si calcola a partire dal momento in cui il lavoratore riceve la comunicazione del licenziamento. 

Se il fatto contestato non sussiste, o non rientra tra le fattispecie individuate dai contratti collettivi, è prevista la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e il risarcimento economico pari all’ultima retribuzione di fatto dal licenziamento alla reintegrazione. Per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, soggetti alla disciplina del contratto a tutele crescenti, si considera l’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.

La reintegrazione del lavoratore non è però prevista in tutti i casi: a seguito della riforma introdotta dal cosiddetto Jobs Act, occorre distinguere tra dipendenti assunti prima del 7 marzo 2015 e quelli assunti successivamente a tale data. Per i lavoratori assunti prima, è necessario operare un’ulteriore distinzione tra imprese con più di 60 dipendenti totali (o unità produttive con più di 15 dipendenti) e imprese al di sotto di tale soglia dimensionale: nelle prime, il datore è tenuto a riassumere il lavoratore se risulta che il licenziamento era illegittimo; le seconde, invece, fanno ancora riferimento alla l. 604/66, per cui il datore è tenuto, in caso di licenziamento illegittimo, soltanto a riconoscere un'indennità economica al dipendente, ma non a reintegrarlo nel suo posto di lavoro.

A seguito della riforma del 2015, e quindi con riferimento a tutti i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, scompare, anche nelle imprese con dimensioni superiori alla soglia, l'obbligo di reintegro per illegittimo licenziamento quando venga accertato che la condotta fosse punibile con una diversa sanzione disciplinare.

Il datore (nelle imprese sopra soglia), pertanto, rimane obbligato al reintegro del lavoratore solo qualora il giudice accerti che il licenziamento per giusta causa era illegittimo per insussistenza del fatto contestato.

 

 

Il licenziamento per giustificato motivo

Esistono due ipotesi di licenziamento per giustificato motivo:

  1. licenziamento per giustificato motivo soggettivo: rientra nella sfera disciplinare. Deriva da un notevole inadempimento da parte del lavoratore degli obblighi contrattuali 
  2. licenziamento per giustificato motivo oggettivo: è originato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’ organizzazione del lavoro  

Il licenziamento motivato da giustificato motivo soggettivo può scaturire da comportamenti disciplinarmente rilevanti del dipendente ma non tali da comportare il licenziamento per giusta causa, e cioè senza preavviso. Anche il giustificato motivo soggettivo pertanto rientra nell’ambito dei licenziamenti di tipo disciplinare, costituendo pur sempre una sanzione a comportamenti ritenuti tali da incidere in modo insanabile nel regolare proseguimento del rapporto di lavoro; vengono fatte rientrare nell’ambito del giustificato motivo soggettivo anche le figure dello scarso rendimento e/o del comportamento negligente del dipendente. Trattandosi comunque di valutazioni sul comportamento del dipendente, anche nelle ipotesi di “scarso rendimento”, costituisce condizione di legittimità del recesso la preventiva contestazione degli addebiti con diritto del dipendente a svolgere adeguatamente le proprie difese.

Quando, invece, il datore di lavoro è costretto a privarsi di alcuni tra i suoi dipendenti che non può utilmente reimpiegare in altri comparti della sua attività per oggettive ragioni di riorganizzazione aziendale, si parla di licenziamento motivato da giustificato motivo oggettivo. Nel caso in cui il datore di lavoro ha la possibilità di ricollocare il lavoratore in altra posizione, sussiste il cosiddetto obbligo di ripescaggio.

Anche in questo caso, qualora il lavoratore ritiene che il licenziamento sia ingiusto, è tenuto ad impugnarlo entro 60 giorni. Il termine per impugnare si calcola a partire:

  • dal momento in cui il lavoratore riceve la comunicazione del licenziamento (se questa contiene anche le motivazioni della decisione del datore di lavoro)
  • dal momento in cui il lavoratore riceve la comunicazione dei motivi di licenziamento (se all'atto del licenziamento questi motivi non erano stati indicati)

Entro il termine di sessanta giorni, in altre parole, il lavoratore deve inviare all'imprenditore una comunicazione (in qualunque forma, anche una semplice lettera raccomandata) con la quale rende noto che intende contestare il licenziamento.

Nei successivi 180 giorni il lavoratore deve:

  • depositare il ricorso nella cancelleria del Tribunale impugnando davanti al Giudice il licenziamento
  • comunicare al datore di lavoro la richiesta di un tentativo di conciliazione presso la direzione provinciale del lavoro oppure una richiesta di arbitrato.

Se questo termine non viene rispettato l'impugnazione del licenziamento non può essere presa in considerazione dal Giudice e si considera inefficace.

Se invece viene richiesta una conciliazione o un arbitrato e il datore di lavoro li rifiuta oppure, pur avendoli accettati, non si riesce a raggiungere un accordo, il lavoratore deve depositare il ricorso nella cancelleria del Tribunale entro 60 giorni.

Nel caso in cui sia riconosciuta dal Giudice l’illegittimità del licenziamento, si opererà una distinzione tra i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 e quelli assunti successivamente: per i primi, è prevista una indennità che può variare da un minimo di 12 mensilità ad un massimo di 24 mensilità. In questo caso però il rapporto di lavoro si interromperà pur essendo illegittimo il licenziamento.

Se però le ragioni alla base del licenziamento risultano manifestamente infondate (cioè, per dirla in altre parole, se il torto del datore di lavoro è evidente) il Giudice può anche ordinare al datore di lavoro di riprendere alle sue dipendenze il lavoratore.

Per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, il Giudice  potrà soltanto condannare il datore di lavoro a pagare al lavoratore, ingiustamente licenziato,  una indennità quantificabile in un minimo di 6 sino a un massimo di 36 mensilità,  tenuto conto di quanto contenuto nella Legge 96/2018 (di conversione del Decreto Dignità DL 87/2018) e della sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale l’art. 3 comma 1 del D.Lgs 23/2015 laddove determina il meccanismo automatico del calcolo dell’indennità collegata all’anzianità di servizio

Nei casi di licenziamento per motivazione economica (giustificato motivo oggettivo) il Giudice non ha il potere di disporre la reintegra.

Queste regole valgono esclusivamente nel caso in cui il datore di lavoro che procede al licenziamento occupi più di quindici dipendenti (se imprenditore agricolo più di cinque dipendenti) in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo e, in ogni caso, qualora occupi complessivamente più di sessanta dipendenti.

Se il datore di lavoro non possiede questi requisiti (c.d. requisiti dimensionali) le indennità risarcitorie sono ridotte della metà e non possono comunque superare le sei mensilità.

Il datore di lavoro ha a sua disposizione alcuni strumenti finalizzati ad evitare il giudizio di impugnazione del licenziamento. Egli, infatti, può procedere alla revoca del licenziamento entro 15 giorni dalla comunicazione dell'impugnazione del licenziamento stesso.

In questo caso il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza interruzione e il lavoratore ha diritto a ricevere la retribuzione nel frattempo maturata.

Il datore di lavoro può, alternativamente, offrire al lavoratore (nel termine di 60 giorni previsto per l'impugnazione stragiudiziale del licenziamento) una somma (che non va a costituire reddito imponibile e non è assoggettata a contribuzione) pari ad una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del T.F.R. per ogni anno di servizio. La somma offerta non potrà mai essere inferiore a 2 mensilità e superiore a 18 mensilità e dovrà essere corrisposta mediante consegna di un assegno circolare. Se il lavoratore accetta l'offerta, il rapporto di lavoro si intende estinto alla data del licenziamento e l'impugnazione rinunciata, anche se nel frattempo già proposta.

In determinate condizioni, le norme previste dal Jobs Act possono applicarsi anche ai contratti di lavoro stipulati prima della sua entrata in vigore.

Infatti, nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente al 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del decreto) vengano ad occupare più di quindici dipendenti (se imprenditore agricolo più di cinque dipendenti) in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo e, in ogni caso qualora venga ad occupare complessivamente più di sessanta dipendenti (come indicato dall'art. 18, commi 8 e 9, dello Statuto dei Lavoratori) il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente al 7 marzo 2015, verrà disciplinato dalle norme contenute nel Jobs Act. (D.Lgs n. 23/2015).

 

Il licenziamento discriminatorio

Il licenziamento è discriminatorio se intimato per adesione/attività sindacale o per ragioni politiche, religiose, razziali, di lingua, sesso, handicap, età od orientamento sessuale.

L’onere della prova, cioè la dimostrazione della natura discriminatoria del licenziamento, è a carico del lavoratore. 

Nel caso in cui sia accolta l’impugnazione del lavoratore, esso ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e a un’indennità risarcitoria, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità). Il datore è inoltre obbligato a versare i contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento a quello della reintegrazione.

L’ordinamento riconosce inoltre al lavoratore il diritto di opzione, ossia la possibilità di scegliere, in luogo della reintegra, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.

Per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, si considera l’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.

 

Il licenziamento verbale

Il licenziamento verbale avviene nel caso in cui il lavoratore viene allontanato dal luogo di lavoro senza alcun atto formale da parte del datore di lavoro (lettera o altro).

La legge impone al datore di lavoro di comunicare il licenziamento per iscritto e afferma che il licenziamento verbale è inefficace: ciò significa che il licenziamento comunicato solo oralmente non produce alcun effetto e, in particolare, non interrompe il rapporto di lavoro tra le parti, sicché il datore di lavoro è tenuto a continuare a pagare la retribuzione al lavoratore sino a quando non sopravvenga un’efficace causa di risoluzione o estinzione del rapporto di lavoro o l’effettiva riassunzione.

In questi casi è quantomeno necessario che il lavoratore faccia pervenire immediatamente una raccomandata A/R (di cui si tiene copia) nella quale lo stesso si mette a disposizione per la ripresa immediata dell’attività dando conto del fatto di essere stato allontanato dal datore di lavoro.

È inoltre opportuno un coinvolgimento immediato di un esperto (ufficio vertenze sindacale).

Anche in questo caso, il lavoratore ha diritto alla tutela reintegratoria piena, cioè ad essere reintegrato nel posto di lavoro; a ricevere un’indennità risarcitoria, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità); a ottenere il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per tutto il periodo dal giorno del licenziamento a quello della reintegra; a scegliere fra la reintegra e l’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto (cd. diritto di opzione).

Per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, si considera l’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.

Il licenziamento a causa di matrimonio

Il licenziamento è da considerarsi nullo se avviene dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio fino ad un anno dopo la celebrazione stessa. 

In questo periodo, il licenziamento è ammesso nei soli casi di colpa grave costituente giusta causa, cessazione dell’attività dell’azienda, ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine, esito negativo della prova. Sono inoltre escluse dalla normativa le lavoratrici domestiche.

Anche in questo caso, il lavoratore ha diritto alla tutela reintegratoria piena, cioè ad essere reintegrato nel posto di lavoro; a ricevere un’indennità risarcitoria, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità); a ottenere il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per tutto il periodo dal giorno del licenziamento a quello della reintegra; a scegliere fra la reintegra e l’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto (cd. diritto di opzione).

Per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, si considera l’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.

Il licenziamento a causa di maternità/paternità

Il licenziamento è nullo quando avviene nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il compimento di un anno di età del bambino (solo madre lavoratrice); a causa della domanda o del godimento del congedo parentale o per malattia del bambino (anche padre lavoratore); sino al compimento di un anno di età del figlio nel caso in cui si sia usufruito del congedo di maternità in luogo della madre (solo padre lavoratore).

L’inizio della gravidanza coincide con il trecentesimo giorno antecedente la data presunta del parto riportata nel certificato medico di gravidanza.

È opportuno precisare che il divieto di licenziamento opera anche in caso di adozione / affidamento e fino ad un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare, per quanto riguarda i casi di congedo di maternità e paternità.

L’impugnazione può essere proposta direttamente dalla lavoratrice, dal sindacato cui aderisce ovvero da un suo rappresentante munito di procura.

Il licenziamento dev’essere impugnato entro 60 giorni dalla sua comunicazione, con qualsiasi atto scritto (anche stragiudiziale) idoneo a rendere nota al datore la volontà della lavoratrice.

Nell’atto di impugnazione non devono essere obbligatoriamente esposti tutti i motivi per cui si sostiene l’illegittimità del licenziamento. È sufficiente che risulti la volontà inequivocabile di impugnare il recesso.

A pena di inefficacia dalla data di spedizione dell’atto di impugnazione, deve seguire il deposito del ricorso giudiziale o la comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. Nel caso in cui la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o le parti non raggiungano alcun accordo, il ricorso al giudice dev’essere depositato (a pena di decadenza) entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.

Tuttavia, esistono casi in cui la lavoratrice madre può essere licenziata anche nel periodo protetto: licenziamento per giusta causa, cessazione totale dell’attività d’impresa, ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta, termine del contratto a tempo determinato, licenziamento in prova ovvero per mancato superamento del periodo di prova.

La lavoratrice (o il lavoratore, nei casi sopra citati) ha diritto alla tutela reintegratoria piena, cioè ad essere reintegrato nel posto di lavoro; a ricevere un’indennità risarcitoria, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità); a ottenere il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per tutto il periodo dal giorno del licenziamento a quello della reintegra; a scegliere fra la reintegra e l’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto (cd. diritto di opzione).

Per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, si considera l’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.

 

Il licenziamento per inidoneità alla mansione

Avviene quando il lavoratore diventa improvvisamente inidoneo a svolgere un determinato tipo di lavoro.

L’impossibilità, però, non si riferisce soltanto alle condizioni fisiche del dipendente, ma anche a situazioni sempre intrinseche allo stesso. Si pensi, ad esempio, a un camionista al quale viene revocata la patente perché sorpreso a guidare ubriaco. In tal caso, poiché la patente è lo strumento imprescindibile per prestare l’attività lavorativa, senza la quale il contratto di lavoro stipulato tra le parti non avrebbe luogo, il datore di lavoro non può fare altro che licenziare lo stesso. Anche in quest’ultimo caso, quindi, si parla di licenziamento per motivi oggettivi.

il datore di lavoro non può procedere al licenziamento senza osservare una determinata procedura, in quanto la legge impone allo stesso di verificare se può diversamente ricollocarlo in azienda (cosiddetto ripescaggio). Quindi, il datore di lavoro non deve fare altro che controllare se all’interno della propria azienda esiste una posizione libera e idonea al profilo del lavoratore che si sta per licenziare. Una volta assicurato stabilito che il lavoratore non può essere ricollocato in altra maniera, si procede con il licenziamento.

 

Il licenziamento per superamento del comporto

Si tratta di un’ipotesi di licenziamento dotata di una disciplina specifica distinta da quella del licenziamento per motivo oggettivo in quanto, una volta che il periodo di comporto (cioè il numero massimo di giorni di malattia o infortunio di cui può beneficiare il lavoratore). Infatti, non è richiesta un’accertata incompatibilità fra le prolungate assenze e l’assetto organizzativo o tecnico-produttivo dell’impresa, potendosi intimare il licenziamento anche nei casi in cui il rientro del lavoratore possa avvenire senza ripercussioni negative sugli equilibri aziendali. Ne consegue che non è necessario che il datore di lavoro fornisca prova in ordine al giustificato motivo oggettivo, all’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa e all’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse.

 

 

 

Come impugnare il licenziamento

Il licenziamento che si ritiene illegittimo, in quanto discriminatorio o privo di giusta causa o giustificato motivo, può essere impugnato dal lavoratore, pena decadenza, entro 60 giorni dalla comunicazione da parte del datore di lavoro. L’impugnazione va effettuata con comunicazione scritta.

L’impugnazione è priva di efficacia se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito presso il Tribunale competente, del ricorso giudiziario.

L’Ufficio Vertenze CISL garantisce ai lavoratori assistenza tecnica, sindacale e legale 

 

Revoca del licenziamento

Il datore di lavoro può revocare il licenziamento entro il termine di 15 giorni dalla comunicazione dell’impugnazione del medesimo da parte del lavoratore. In questo caso il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza alcuna interruzione.  Il lavoratore ha diritto alla retribuzione per tutto il periodo precedente la revoca. Non vi sono sanzioni a carico del datore di lavoro.

Se hai bisogno di ulteriori informazioni e di assistenza, puoi rivolgerti alla sede dell’Ufficio Vertenze Cisl più vicina a te.

 

 

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