La Direttiva del 27/11/2000 n.78/CE stabilisce un quadro generale per la parità in materia di occupazione, condizioni di lavoro e lotta alle discriminazioni fondate su religione,convinzioni personali, handicap, età e tendenze sessuali.
La fattispecie della discriminazione indiretta contenuta nella Direttiva 2000/78 CE è configurata specificamente nella situazione di lavoratori e lavoratrici in disabilità, con opportune precisazioni. Le disposizioni normative o situazioni di fatto comuni potrebbero procurare comunque uno svantaggio proprio ai soggetti con handicap: sono quindi previsti all'art.5 della Direttiva i principi che vengono chiamati "reasonable accomodations" (a seguito dell'esperienza statunitense), ma in Italia sono declinati per il datore di lavoro nell'adoperarsi a migliorare situazioni concrete per lo svolgimento della prestazione lavorativa.
Che cosa significa in pratica? I principi affermano l'opportunità di prevedere misure destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio: sistemando i locali o adattando le attrezzature, intervenendo nei ritmi di lavoro, nella ripartizione delle mansioni tra i lavoratori, fornendo mezzi di formazione e/o di inquadramento.
Tali accorgimenti - se non osservati dal datore di lavoro – in quanto rientranti nelle disposizioni a favore della disabilità nel Paese di applicazione (anche tenendo conto dei possibili finanziamenti pubblici) non possono giustificare l'eventuale licenziamento della lavoratrice o lavoratore.
Questa premessa è essenziale per comprendere nella realtà come si trova la donna portatrice di disabilità nel lavoro e possiamo sostenere che tutti i contesti lavorativi recano alle persone con handicap una probabile situazione discriminatoria.
La Convenzione ONU dei diritti dei disabili, riconosce una "doppia discriminazione" nei confronti delle donne disabili e testualmente scrive all'art.6 dell'esistenza della "discriminazione multipla". Per le lavoratrici e lavoratori con handicap si parla spesso delle discriminazioni multiple, perché nei fatti queste situazioni reali posso coesistere. Ad oggi, la Corte di Giustizia ha dato prova di considerare queste fattispecie, ma la tipologia non è stata inserita nella normativa europea.
Un esempio: una lavoratrice, di origine africana e portatrice di handicap, viene trattata con palese sfavore dal datore di lavoro: quale di queste situazioni determina la discriminazione?
Vale la pena segnalare un caso - che riguarda tante donne madri e lavoratrici - di giurisprudenza europea, dove la donna lavoratrice sana ha un figlio portatore di handicap. Il datore di lavoro ha licenziato la dipendente per le molte assenze dovute dalla malattia del figlio disabile. La Corte ha riconosciuto la discriminazione per associazione in quanto la lavoratrice, pur non essendo portatrice della condizione protetta, viene però discriminata e licenziata a causa della disabilità del figlio.
Nell'accertamento giudiziario della discriminazione vige l'inversione dell'onere della prova, cioè la controparte (datore di lavoro) deve dimostrare la non-sussistenza della violazione del principio di parità di trattamento, lamentato dalla lavoratrice ricorrente.
In relazione alle discriminazioni, le legge prevede forme di tutela giurisdizionale a carattere cautelare e d’urgenza con procedure di conciliazione, anche con legittimazione ad agire e/o di sostegno per conto del soggetto discriminato da parte di rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative.
Dall'ISTAT abbiamo i dati delle donne che lavorano con handicap: in Italia solo il 35,1% delle donne lavoratrici è con disabilità (contro il 52,5% degli uomini nelle stesse condizioni). Ricordiamoci che nella strategia Europa 2020 troviamo considerate espressamente le persone con disabilità nell'obiettivo della maggiore occupazione: questa visone futura di crescita non dovrà essere sostenuta solo politicamente, ma dall'intera società.
(Un ringraziamento alla Prof. Silvia Niccolai per le fonti del diritto europeo)