Le Marche, come tutto il Paese, hanno affrontato anni difficili; la consolidata immagine di regione della laboriosità, della coesione sociale, del vivere bene, si è andata via via appannando. La violenta recessione è andata a sommarsi ad una crisi strutturale di quei fattori che avevano contribuito all’instaurarsi dei miti marchigiani del “piccolo è bello” e dello “sviluppo senza fratture”.
Una fase si è conclusa e, pur in presenza di alcuni segnali esterni positivi, non si intravede l’avvio di un nuovo ciclo di trasformazione e dinamismo socio-economico: la disoccupazione resta significativa, i consumi ripartono lentamente, il credito è ancora stagnante, la capacità di spesa delle amministrazioni locali si riduce, sugli investimenti interni ed esteri ci sono previsioni al ribasso.
Se aggiungiamo la specializzazione prevalente in settori produttivi tradizionali, la scarsa managerializzazione delle imprese, le difficoltà nel ricambio generazionale, la riluttanza di molte piccole imprese ad accogliere persone con skill professionale elevato, nonché servizi e dotazioni infrastrutturali immateriali non sufficienti, il piatto del possibile declino è servito.
Non è più come prima, non possiamo indugiare nella nostalgia di tempi andati, di situazioni accadute che non si ripresenteranno, nè possiamo riporre speranze in grandi idee risolutrici o in pianificazioni miracolose: dobbiamo ricercare nuove fonti di valore e di sviluppo per le nostre comunità, per i nostri territori.
Alla razionale preoccupazione per il futuro, dobbiamo affiancare la capacità di valorizzare gli elementi di dinamismo e innovazione che pure sono presenti in una parte del nostro sistema produttivo e sociale: un potenziale scarsamente sfruttato che può invece essere utile a riposizionare in modo efficace il sistema-Marche sulla catena del valore internazionale.
Credo che le Marche possano e debbano avere l’obiettivo prioritario di investire nel “capitale di rete” o “di connessione” sui territori: reti tra imprese, università, parti sociali e altre agenzie formative; reti tra città (sia per la gestione associata dei servizi che per cooperare ai fini dello sviluppo); reti tra pubblico e privato per l’innovazione digitale, reti tra servizi pubblici e privati per le politiche attive del lavoro.
Alla classe politica, che negli anni ha troppo spesso tollerato se non promosso degli eccessi di localismo e frammentazione, si chiede di svolgere un convinto ruolo di “incubatore”, di “acceleratore” di questa costruzione di reti, con e tra i soggetti istituzionali, sociali ed economici del territorio.
Un territorio che deve essere inteso come attore sociale collettivo, capace di condividere scelte progettuali, interessi, risposte ai bisogni, per generare efficienza e limitare le disuguaglianze. Oltre che nei protocolli formali, il partenariato deve essere pienamente assunto come metodo di una vera programmazione “a rete” per condividere idee e progetti di sviluppo locale.
Per questo come organizzazioni sociali, a partire da quelle dell’impresa e del lavoro, dobbiamo essere ancora più consapevoli del valore e del potenziale generativo della nostra azione sussidiaria. Dobbiamo essere in grado di leggere, interpretare, prendere meglio in carico le vulnerabilità di coloro che a noi si rivolgono e delle loro famiglie: assumere questa consapevolezza vuol dire rafforzare la capacità di “farsi prossimi”, che è fondativa ed al contempo vitale sia per il sindacato confederale, che per le associazioni della piccola impresa e del terzo settore.