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  • Sindacati in prima linea contro la 'Ndrangheta

L’autore del gran rifiuto si chiama Enzo Micheletti, ha l’aspetto di un ragazzo cresciuto, i capelli fulvi, una militanza aclista e una piccola croce di legno al collo. Difende i diritti dei lavoratori e i principi di legalità in nome della Filca, il sindacato edili della Cisl. Micheletti era tra i presenti alla riunione promossa qualche giorno fa dalla Filca in un albergo di Cerro Maggiore, alle porte di Milano. Una riunione straordinaria. Forse per la prima volta le strutture dirigenti sindacali della Lombardia occidentale si sono incontrate per decidere la strategia più efficace per combattere la ‘Ndrangheta nella propria regione e nel proprio settore. I direttivi di Milano, Varese, Magenta-Legnano, Lodi. Mancava Monza-Brianza, che ha pensato di declinare l’invito. Per capire il senso di quello che è accaduto bisogna tenere bene in mente due cose. La prima. Secondo la procura nazionale antimafia la ‘ndrangheta ha conquistato, in provincia di Milano, “il monopolio del ciclo del cemento”. Che vuol dire aree fabbricabili, cave, piani regolatori, case private e lavori pubblici, ad esempio l’alta velocità e le opere autostradali, dove infatti sono spuntate imprese legate ai clan. La seconda. Le autorità politico-istituzionali continuano a negare la presenza mafiosa in Lombardia. E’ in questo contesto dunque che una settantina di sindacalisti e di delegati sindacali ha deciso di darsi appuntamento. Alcuni che li diresti tali già alla vista, altri, specie le donne e i più giovani, che non li diresti affatto. Molti di origine meridionale, compreso uno che faceva il rosticciere a Palermo e ne fuggì in una notte per non cadere nella rete del “pizzo”. Tanti jeans, camicie a scacchi e golf arancioni o ciclamino, donne giovanilmente eleganti, un delegato di colore, un paio di delegati in giacca e cravatta. Tutti intenzionati ad andare a scassare pigrizie e silenzi nella tana del lupo. E ascoltarli significa rendersi subito conto delle difficoltà infinite a cui li metterà davanti questa scelta. L’occupazione, prima di tutto. Il sindacato infatti è reduce a Milano da una scelta sofferta: fare restituire il certificato antimafia a un’impresa di trasporti impegnata su grandi lavori. E in odore di mafia. Gliel’aveva revocato la tanto contestata prefettura. Effetto immediato: centoventi lavoratori regolari praticamente a spasso che maledicono le “fisime” del prefetto. Il quale ha spiegato e difeso le sue buone ragioni. Alla fine i sindacati l’hanno spuntata. Ma sanno che la cosa non si può ripetere. Che non si può contrapporre l’occupazione alla legalità. Che il sindacato non può trovarsi in rotta di collisione con i movimenti civili. Ne nasce un racconto corale, fitto di episodi e riflessioni. Il caporalato, che nella metropoli esiste eccome, se ne conoscono i tempi e i luoghi. La logica imperante del massimo ribasso, vera manna per le imprese più spregiudicate. L’azienda dei trasporti milanesi che appalta lavori al 50 per cento del ribasso, il vecchio casinò municipale abbattuto con il 65 per cento del ribasso... E poi la scomparsa della filiera dei subappalti dalle “notifiche preliminari”, con tanti saluti alla trasparenza. Le ruspe che saltavano negli anni novanta in quello che viene definito “il triangolo delle Bermuda” (Corsico-Trezzano-Buccinasco) e gli imprenditori che raccomandavano di “non fare troppo casino” con i Comuni. Il sospetto di smaltimento dei rifiuti tossici nelle cementerie. O le aziende che spuntano da Reggio Calabria in una situazione di crisi marcia, dopo buchi di cassa e licenziamenti, e gli operai che chiedono di non indagare, “almeno abbiamo la busta paga”. Si mettono insieme pezzi di strategie. Collegare i cantieri con la società, insieme a Cgil e Uil. Scegliere l’Expo come banco di prova. Massima sicurezza e trasparenza con le leggi vigenti. Una norma per commissariare le imprese sospette senza mandarne a casa i dipendenti. Francesco Bianchi, il segretario provinciale di Milano, dà l’allarme sulle possibili presenze criminali fra i “terzisti”. Renzo Zavattari, il segretario regionale, evoca i Pink Floyd (“ognuno metta il suo mattone al muro contro le infiltrazioni mafiose”). Un sindacalista massiccio chiede a tutti perché palazzoni e alberghi vengano lasciati andare in malora, e che convenienza ne possa mai avere il re dei costruttori Salvatore Ligresti. Un altro chiede perché il San Raffaele abbia affidato suoi appalti a una ditta indagata e continui ad affidarli alla sua erede. E c’è chi, come lo stesso Micheletti, mette l’accento sulla assoluta eccezionalità dei contesti in cui si va a chiedere il rispetto delle leggi. “Un giorno venni quasi alle mani con un tipo prepotente. Il giorno dopo lessi sui giornali che lo avevano preso i carabinieri e che era accusato di dodici omicidi. Mi vennero i brividi”.Forse è anche per questo che la straordinaria riunione sindacale evoca, sessant’anni dopo, un passo di “Placido Rizzotto” di Pasquale Scimeca: la scena della Camera del lavoro in cui i contadini decidono di occupare il feudo. Di andare nella tana del lupo. Le riunioni sindacali non suggeriscono più quelle atmosfere. Ma se metti insieme la Lombardia di oggi, il ciclo del cemento e un po’ di sindacalisti dalla schiena diritta può succedere.

tratto da il Fatto Quotidiano del 9 maggio 2010